Via “Dino e Maria”, relazione estesa

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Una via è quello che si vive, ognuno ha il suo atteggiamento e la sua giornata.
Qui quella di Enrico con Daniele e Monica.

di Enrico Stramezzi

Fine luglio…
Diamo un passaggio a due enormi zaini.
Monica si rivolge alle due ragazze bionde che li accompagnano in… tedesco? Quando passano all’inglese capisco appena che sono Danesi. Daniele guida non ci prova neppure. D’altra parte sono in là con gli anni.
Elle è stata sull’Aconcagua. Edema cerebrale ma l’ha scampata, molto tranquillamente simpatica, un immacolato sorriso, occhi azzurri decisamente simpatici.
Daniele non batte ciglio.
Gli ultimi passi verso il rifugio li faccio con loro. L’amica ha un nome molto nordico, impronunciabile, sembra più giovane e cammina come tra le corsie di un supermercato. Si sa, in genere non vanno in salita né in discesa in quei posti e non abbondano di scomodi sassi o buchi, né costringono a strani passetti nervosi… e c’è pure lo zaino monumentale.
Chiedo se hanno la tenda.
Non colgono l’involontario umorismo.
In centocinquanta metri io e Elle distanziamo Gretel. In realtà si chiama… Thove.
La mamma di Daniele ci ha opportunamente fornito di un mega dolce che i nostri si attardano a portare religiosamente al rifugio.
A cena loro respingo l’idea della torta mentre loro due concludono con budini e panne cotte. In seguito sapremo che Daniele prima di ritirarsi si è fatto pure una fetta del dolce locale formato family con la scusa di aver voluto condividerla con noi.
La notte è lunga.
Un gruppo numeroso e ben conservato di anziani hanno acceso la stufa subito sotto la botola del sotto tetto dove ho il giaciglio, trovo non abbia senso chiamarlo letto. Conformandomi a U affondo nel caldo della mia amaca senza poter usare il cuscino e ascolto qualcuno parlare nel sonno.
“…Good night sleep tired”.
La notte è lunga, ed Elle lontana.
Nel buio una voce chiede acqua senza trovare riscontro.
Al mattino c’è chi si è cambiato di letto; faticosamente per non prenderci troppo sul serio partiamo tardi. Daniele si è fatto due coppette di yogurt col miele e lo zucchero.
Monica non ha problemi.
Un sorso di the alla tibetana è tutto quanto riesco a mandar giù: per errore ho buttato un burrino con tutta la carta nella teiera dove si è disciolto. Mi sembrava strano. Sono cotto.
Mi assilla la nenia che ho sentito cantare nel sonno, mi mi mi mi… mi accompagna mentre il sentiero sale e il sudore scende sugli occhi.
Monica alla grande.
Daniele la fotografa, lei e l’ambiente. Constatiamo come si stia piacevolmente bene quassù.
Il gruppo era più unito l’anno precedente? Si sono formate fisiologiche tendenze separatiste, raggruppamenti di categoria, niet or not here…? sbuffiamo e rimandiamo le conclusioni mentre si delinea la parete sud ovest del Cridola.
Una fotina ricordo anche per il colatoio dove sale la via e siamo all’attacco in due orette strette. Altre due cordate. Una già alta.
Parto, salto una catena e vado alla vecchia sosta. Farò così quasi sempre. I ragazzi sono scontenti, vorrebbero poter seguire la via anche sulle fotocopie e non ci capiscono niente. Spingo il terzo tiro verso destra e chiedo loro dall’alto se al mio posto si sarebbero diretti verso la sosta da cui li osservo, entrambi sono presi dalla roccia magnifica e si stanno divertendo.
Poi raggiungo direttamente due old fashion barbuti alpinisti in discesa alla catena intermedia e saltandola decido di affrontare direttamente nel colatoio l’ultimo tiro, prima del famoso strapiombo finale. Mi ritrovo in uscita dai neri su un muretto del levigato colatoio grigio perla, in un delicato danzante liscio passaggio a punte incrociate su monodita, preso nel punto più ostico, per giunta la corda stenta ormai a venire. Un tratto di qualche metro di buchetti svasi e dita incrociate che giudico calorosamente sei meno, vedremo i ragazzi…
Più su, dove non serve un accidente, a sinistra in alto, trovo un chiodo a metà strada per il terrazzino, probabilmente dove rientra l’itinerario originale.
L’ultima cordata, vedendomi avanzare sprotetto e prensile come un lucertolone, affascinata sugli esiti aspetta a buttare la doppia, e ora ridiscende non prima che uno dei due abbia modo di raccontarmi che sono partiti alle tre e mezza.
“Alle tre e mezza del pomeriggio?” chiedo non avendo orologio né mente locale.
“Del mattino” risponde il socio sconsolato.
“Il mio compagno ha sbagliato forcella” precisa polemico e scompare verso il basso con la mia inutile ma sincera comprensione.
Daniele si affaccia sul liscio lato opposto di dove sono salito e mi comunica tranquillo che lì non ci sono appigli.
Lo guardo per dispiacermene.
Quando già gli sto proponendo di afferrarsi alla corda se la cava con un egregio appoggio bimane appena bradipesco. Monica chiede a sua volta lumi e più laboriosamente sale con un gioco di piede sinistro teso in alto e poi fatto ridiscendere a passettini, da cineteca di quel che si può tentare con una corda tesa.
Ultimo passo, lo strapiombo. Monica esprime problematiche. La rincuoro, lo conosco e non è speciale, né durante né dopo, appena fragile, basta non tirar giù tutto, è quanto.
Salendo noto cambiata la morfologia di quel che una volta avevo, giudicato quanto meno, dev’essere stato ripulito alla grande, poi una spaccata e via, fin troppo semplice, ora è un quintino.
Ancora una ventina di metri, la mano nella famosa acquasantiera e il terrazzino con il mega clessidrone orizzontale. Più su mollemente gorgoglia acqua di fusione in una qualche pozza superiore che, visto il caldo, mi vien voglia di raggiungere.
Dopo.
Ora mi tolgo tutto quello che posso … A piedi e torso nudi mi slego anche dalle corde e prendendo di faccia il sole recupero la gialla di Monica. C’è un intoppo. E parte la nera di Daniele che dopo un poco spunta al di sopra dello strapiombino comunicandomi che Monica trova forzatamente più interessante rimanerne al di sotto, al fresco. Sarà, la capisco, ma lo spettacolo del canalone imponente in discesa dalla forcella Scodavacca mi riprende insieme al sole e al gorgogliar d’acque appena disturbate dai molteplici sottostanti consigli di Daniele.
Un’isola deserta, la risacca lontana, ma poi le zanzare … la pelle appiccicaticcia di salso sul letto … Cerco di non appisolarmi.
Ma la situazione non si sblocca, anzi.
Racconterà Monica alle amiche Danesi che la sua mano sinistra stava ben alta su un solido appiglio mentre la destra vagava benedicendo l’aria.
“Sali coi piedi finché puoi!” grido a Daniele rompendo il mio isolamento magico e gorgogliante di sconosciute acque vergini.
Gorgogliante?
Improvvisamente dalla destra un fiotto liquido mi fa schizzare in piedi, raccogliere le corde a lato, rimettere le scarpe mentre l’acqua, come fa quando non sa cosa fare, mi invade la sosta. Irresistibile non negarle lo spazio!
Grido giù di darsi da fare.
L’improvvisa voracità dell’acqua mi costringe ad accumulare una piattaforma di sassi per galleggiarci almeno al di sopra mentre gli spruzzi mi inaffiano le gambe.
Monica chiede inopportunamente d’essere calata.
Osservo la scena dall’alto.
È bucolica.
Daniele trattenuto dalla corda è assiso sul lato del liscio colatoio bianco come non avesse nient’altro da fare se non intrattenere la nostra eroina, mentre serpeggiando un infido rivolo d’acqua scende a raggiungerlo.
Eppure li voglio in sosta, è la cigliegina.
Poi, tratto dopo tratto, recupero brani di gialla e improvvisamente spunta un casco con sotto una Monica non proprio raggiante. I due salgono sul lato opposto della cascatella su passi non estremi ma, da come ogni venti centimetri mi chiedono di recuperare, interessanti.
Sfortuna, neppure possono con piacersi della mano nell’acquasantiera, difficile distinguerla ormai dal piccolo fascinoso laghetto ai nostri piedi. Ora ci aspettano quattro lunghe doppie di corde fradice, per , tacer di noialtri appesi alle stesse, e nessuno protesterà che le mie gemellari siano troppo fini a favorire un troppo facile scorrimento.
Bagnate fanno un attrito da dio.
Parto per la prima ricordando a Monica che ci deve una birra. La vicenda dura un’altra oretta e hai voglia … intrichi di corde ottusamente bagnate e soste in catena in pieno generoso afflusso liquido, scomodo sì, ma piacevole tutto sommato, visto il caldo, se non fosse che mi preoccupo per possibili blocchi delle corde in recupero.
In quelle condizioni sono meno scorrevoli.
E nel posto più articolato e fornito di spuntoni la ‘Diavolo nera’ infatti si blocca. Così la chiamo per ricordarmi quale tirare.
Viene giù a frusta convinta da un progressivo irresistibile strattone liberatorio, standing ovation; partendo per l’ultima tratta predico facili felicità.
Trotterelliamo verso il basso per il ghiaione. Per primo arrivo al rifugio dove vengo accolto dal sorriso di Elle.
Pensava forse di non vederci più?
Hanno passato una rilassante giornata facendo spola tra i tavoli sotto il portico del rifugio e l’erba lì davanti, e ritorno.
Mentre bevo la birrazza che ha voluto offrirmi le spiego nel mio inglese da cantiere la via che abbiamo fatto, ce n’è da raccontare, mi fa domande, capisco e non capisco, soprattutto non capisco, allora faccio una pausa di riflessione e riprendo con un analogo argomento, quale debba essere la naturale estensione dello stesso.
Non so se me la cavo.
Quando la guardo trovo sempre i suoi occhi sorridenti, i denti scoperti da dodicenne in vacanza. È stata anche sul Kilimangiaro, non è nata ieri, da la sensazione che se tu non fossi lì non sarebbe lo stesso.
Quando arriva Monica il racconto viene ampliato e arricchito con la sua piccola avventura.
Come si dice strapiombo?
Overhang?…e l’inaspettata cascata d’acqua al ritorno.
Se non altro parla assai meglio di me e mi aiuta a cavarmela annuendo abilmente, è stata una bella giornata, è certo.
Già, ma le danesi parlano danese.
Se Elle avesse due anni di meno.
Non è disdicevole, rimarrei a far su e giù nel prato, oggi, anche domani.
I suoi occhi sono …
Ci salutiamo con scambi d’indirizzo, questo con Monica. E un bacio
sulla guancia e l’altro no.
Daniele non batte ciglio.
Ci aspetta la pizza.

ENRICO STRAMEZZI

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