Come imparare ad arrampicare in sei settimane

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Suggerimenti ad un capocordata

di Enrico Stramezzi

ClimberÈ il sogno di ogni appassionato.
Ed in effetti lo è.
Un sogno appunto.
Certamente destinato a rimanere tale per i molti che scambiano la propensione verso l’alto per quel qualcosa di abbastanza mitico che si sviluppa soltanto con vera applicazione, vuoi in falesia, vuoi in biblioteca, come chiamo la palestra indoor. Dove imparare altrimenti le movenze che adatteremo alle strutture di roccia e che, sfruttando l’intelligenza motoria, saremo portati in seguito ad utilizzare in montagna con crescente sicurezza? Dove pensiamo di acquisire quel bagaglio di movimenti sempre in divenire che ci trarranno d’impaccio tanto opportunamente?
Escludendo ogni velleità di giudizio, ma senza nasconderci dietro le dita di una mano, non è pensabile affrontare un discorso introduttivo all’arrampicata senza osservare ciò che ci riguarda da vicino.
Non è forse vero che molti di noi sembrano inchiodati ad un certo grado, a delle date difficoltà, ma soprattutto a delle date idee, salvo scoprirsi cronicamente impreparati in montagna, facendo valere la sola, pur fondamentale, esperienza psicologica, assimilata col passare degli anni? Sembrerà impietoso, ma questi ultimi ci possono insegnare molto sull’atteggiamento da non tenere.
E che pensare di chi, preso da entusiasmo per il nuovo giocattolo, si fionda su vie al di là delle proprie possibilità, convinto che alcune non didattiche sessioni di palestra o falesia abbiano fatto di lui un climber, a scapito della sua e altrui sicurezza, senz’essere in grado neppure di quell’elementare manovalanza necessaria ad attrezzare una sosta a prova di bomba, come si dice, o a proteggersi efficacemente prima di quel chiodo irraggiungibile che tale rimarrebbe se volassimo sul passo sprotetto che lo precede? O a lanciare una doppia senza farne un cespuglio irrecuperabile?
Alcuni di noi non sanno ancora come posare i piedi, fulcro di ogni movimento e postura del corpo, e insistiamo ad insegnare ad arrampicare con le gambe. Non si smuovono con delle idee. In che maniera assimilare una qualunque tecnica di progressione utilizzando una scarpa comoda? Con le pantofole si sciabatta. Chi pretenderebbe di insegnare a scrivere con un manico di scopa? Secondo fisiologia, nel cervello il piede ha un terzo delle terminazioni nervose della mano, bisogna orientarlo. Appoggiare la scarpetta sull’appoggio deve diventare come avvitare la vitina di un orefice. Mi dilungo in un breve ricordo. Partita di ping-pong. Ho il convincimento di tener testa all’amico che tuttavia stravince. Mi impegno, cambio racchetta, prendo scuse. Stanco delle mie manfrine e continue richieste di rivincita mi guarda fisso, entra in casa e ne esce munito di un tagliere. Che devo dire? Vince. Non avendo appreso a giocare affettando cipolle, oggi se lo può permettere.

Ognuno di noi crede di poter capire, crede di sapere, crede insomma.
“Quello sì che sa arrampicare!” L’abbiamo detto o sentito spesso sussurrare nelle sedi del Cai, rimanendo abbagliati dalla facilità con cui la persona in causa manovra abilmente su tratti che a noi rimarranno a lungo ostici. Ci siamo mai chiesti quanto impegno gli sono costati? O davvero pensiamo che quell’abilità cada addosso così, tra una pizza e un pieno di benzina mentre alla sera torniamo a casa?
Ma facciamo due conti. E facciamoli per noi stessi, ora che abbiamo posto il problema. Noi quanto ci applichiamo per ottenere uno sviluppo delle nostre possibilità? Oppure pensiamo davvero di non poter migliorare o non ci riconosciamo nei quadretti precedenti? Qui scuse e belle intenzioni non dicono molto. Non è forse vero che deleghiamo a brevi test su vie strafatte in falesia la risposta necessaria ad esporci a chiodi piantati in chissà che epoca?
Pare straordinario non renderci conto di cosa significhi arrampicare impreparati in ambiente. Non faremmo meglio, dandoci obbiettivamente un voto, ad attenerci ad un programma a noi possibile, e ad applicarlo? O quantomeno a non illudere qualche inesperto, convincendolo ad accompagnarci non già in falesia ma in montagna! “Ravanare” su appoggi di palestra e pretendere d’insegnare a progredire su quello stesso grado implica una buona dose di incoerenza e confusione mentale.

Se scegli di assumere il ruolo del leader, o se le circostanze ti spingono a farlo, dalle tue decisioni dipende l’incolumità di più persone, questo è un gioco solo fino a quando rimane tale. Senza scadere nel moralismo, non deve coinvolgere i compagni che ci si affidano un po’ superficialmente, convincendoci che si tratta di adulti che san badare a sé stessi. Non è mia intenzione impegnare con inutile retorica quanti suppongono di non aver nulla a che fare con tutto questo. Ognuno ha la sua strada.
Tuttavia quanti facciano dell’autocritica una delle proprie armi di maturazione si sentiranno senz’altro motivati a seguire una preparazione adatta alle loro pretese. In questo ambito semplicemente non si può simulare, è un fatto. E un fatto è volare da secondo su una via che in birreria ti bevi da capocordata, un po’ indigesta come bevanda, soprattutto per chi ti si affida, non credi? Ma ti vengo incontro.
Vuoi intraprendere un test sulle tue reali possibilità o quelle che ritieni tali? È del Karakiri-test di cui parlo, non ti far impressionare dal nome, l’unico che ti mette di fronte alla realtà, ideato su due piedi, i suoi ingredienti sono:

  • un incolpevole inesperto (sacrificabile)
  • una via in ambiente alla tua portata, secondo quanto affermi, che nessuno del tuo ambito conosca se non per sentito dire, te incluso.

Eccoti all’attacco senz’altro aiuto che la relazione tratta da una delle innumerevoli guide a disposizione, voi due soli, senza codazzi. Tutto qua, senza inganni. Certo questo prevede, anzi pretende, che tu sia effettivamente un capocordata su quel grado! Se ti succede qualcosa per tua inabilità, che so, sbagli via, sopravvaluti la tua velocità, o voli e ti fai male e ti scopri in stato confusionale, oppure, è da mettere nel conto, cambia il tempo o cade un sasso, avrai sempre qualcuno a cui chiedere l’ora, il tuo fedele compagno inesperto che altro aiuto non ti potrà dare. Sempre che a quel punto ti interessi documentarti in tal senso.
Esiste un posso e un non posso, niente come l’alpinismo è così, non deve poter esistere un “ci provo”. Starci dentro per un novantotto per cento vuol dire finire male, mettere al volante qualcun altro.

E diciamo due parole sui fatti.
Si arrampica a vista. E non è facile. È la chiave dell’alpinismo, non per nulla. Il grado raggiunto in palestra non conta niente, è bene convincersene. Ciò che invece ha senz’altro un peso è la totale padronanza di quel grado, la capacità di resistere su quel grado, di andarci a spasso, di discendere verso un punto memorizzato in precedenza se ci si scopre bloccati, pena il volo. Per questo si suggerisce la scelta di vie un grado o due sotto le nostre possibilità, mai allo stesso livello. Come ci svincoleremmo altrimenti? Il miglior modo di parare un volo è di mettersi in condizioni di non volare, ad ogni costo e in ogni modo. Se si cade e non ci si fa male vuol dire che abbiamo avuto una fortuna sfacciata, al di là di ogni ragionevole dubbio. Per questo non ci interessa chi si affida ai santi, e sono molti, troppi, gli alpinisti in erba miracolati e dalla fede inesauribile, e a volte ci si mettono anche i ragionevolmente esperti a minimizzare. È l’ideologia del flipper, più sbatti più fai punti.
Tutti siamo caduti o cadremo. “Se mancando un appiglio un alpinista potesse spiegare le ali e svolazzarsene nell’aria non esisterebbe l’alpinismo”, René Desmaison a memoria. Il volo è intrinseco allo stesso arrampicare, bisogna annotarselo. Tuttavia c’è sostanziale differenza tra pericolo oggettivo, quello di un appiglio che si stacca, e soggettivo, quello che riconosce il pericolo in noi stessi e nelle nostre scelte. O davvero pensiamo che i sistemi di sicurezza da noi messi in atto siano da soli in grado di parare un incidente? Certo, è ciò che ci auguriamo. Il paradosso sta nel far conto solo su questo, magari in possesso di manualità e annesse valutazioni di chi non saprebbe appendere un quadro al muro in casa propria. Ragazze nel mirino, ma non solo.

Parlavamo di fatti. Quando programmiamo un’uscita in montagna ci documentiamo, calcoliamo i pericoli che possono dipendere dalle nostre condizioni fisiche, emotive, o da fattori esterni a noi stessi, basandoci su informazioni incomplete, lo sono sempre. Se riteniamo di poter gestire quei rischi, li accettiamo. Se queste nostre scelte dipendano dall’illusione o dalla realtà, lo scopriremo alla fine. Aldous Huxley ebbe a dire che mettendosi in gioco scopriamo i nostri equivoci sul mondo.
Fatti sono ciò che accade in montagna quando si arrampica a vista, quindi niente omogeneizzati, prestampati su vie strafatte, niente telefonini che tanto non prendono, niente soccorsi che ci traggano d’impaccio, elicotteri e angeli custodi vari, con tutto il rispetto, niente ombrello psicologico. Si dice che il valore di una cordata sia da valutare sul suo anello più debole. E che cos’è l’ombrello? È una copertura. Accade nell’ambito del rapporto che si istaura tra due o più climber. In questo gioco pieno di seduzioni e promesse dove l’immaginazione è letale se non è sorretta da reale competenza, è facile credere di essere una persona diversa da quella che si è. E in questo gioco le fantasie sono letali. L’abbiamo sentito dire.
Il compagno meno preparato avverte la necessità di dimostrare il suo valore e utilizza il più tosto tra i due come punto di riferimento, usa l’ombrello fornitogli dal più bravo per fare cose vicine o al di là del proprio limite, inizialmente procedendo in un contesto di comando alterno. Un curriculum falsato da alcune compiacenze e il gioco è fatto. Ora il sedicente climber, spinto da entusiasmo e sana ambizione, senza rendersene conto costruisce tranquillamente le sue scelte sulla base di vie non effettivamente da lui controllate, autoconvincendosi di essere in possesso di una solidità psicologica che non vive e che una disavventura liquefarrà nel suo cervello stressato.

Le montagne non sanno nulla di tutto questo. E le montagne sono munite di denti. Per trasformarti in cibo per loro non c’è niente di più efficace della distrazione emotiva, dell’incoscienza se vogliamo chiamarla col suo nome, del lasciare che quest’altro che non siamo si prenda rischi che noi non ci prenderemmo. Naturalmente ciò che ci impedisce di ragionare non ci impedirà di sbagliare. Lo psicologo dice che quando una persona fa una cosa particolarmente sconsiderata, è destinata a ripetere il suo atto. Non si tratta di chiedersi se farà un’altra cazzata, ma quando.
Evidentemente il rischio, previsto e imprevisto, riguarda tutti gli aspetti della vita. La smania di sicurezza dei nostri giorni è specchio del bisogno di un controllo che ci sfugge. Ci si tutela regolamentando l’impossibile, stipulando polizze, creando sottocultura di supporto, la nostra cultura. Lasciarsi essere vulnerabili senza autocompiangersi è da forti. Mettersi in condizioni di scoprirlo è da pochissimi, è quello che alcuni grandi dell’alpinismo chiamano vivere esposti. In un contesto di tal genere la montagna non può che essere sorvegliata, attualmente il 14,63% del territorio d’Europa è difeso in parchi controllati, ben 43 mila, pari a 750 mila kmq, il più gran numero del nostro pianeta, e noi ce ne siamo recinti fuori. La botte di ferro. E l’avventura, scelta di confronto tra ignoto e pericolo non è ammessa. Ad ogni incidente questo o quel giornalista si scaglia contro le vittime, se ne fa bisogno e vanto. Il Corriere della Sera in data 27 gennaio 2003 scrive che gli alpinisti “Hanno indossato le pelli di foca”, a commento dei fatti seguiti alla valanga in Val Gerola. “Incoscienti criminali”, vengono additati dal rozzo incompetente. Non da meno, Repubblica esordisce spiegando la colpa presunta. “Hanno tagliato la montagna”, dopo di che “la cima si è rovesciata su di loro”. Il Corriere conclude rimarcando che lo scialpinismo “Sta diventando un tragico, terrificante sport ad eliminazione”. Sono queste le convinzioni della gente? La “Montagna assassina”, termine coniato nel 1886 dalla disapprovazione di Paul Hervieu, resta ultimo pretesto di una società incapace di accettare la precarietà del mondo reale. La montagna è intesa come l’ultimo dei luna-park, simbolo del pensiero debole imperante. Si invoca sicurezza, come si avverte il diritto di pretendere impegnando la ruota del divertimento istallata in piazza. Tuttavia la montagna, come la natura, è solo verità.

Due righe da saltare a pié pari non desiderando affaticarsi.
Tempo addietro la natura esordì nel paesaggio, sua visione culturale. “Un paesaggio, come dimensione estetica e come esperienza di vita, non è, ma diviene tale quando la percezione lo trasforma in oggetto della mente, in luogo di valori, luogo di ritorno o di ascesa all’autentico”, chiarisce Paola Giacomoni, ordinario di storia della filosofia. “Per vedere un paesaggio occorre una teoria, la suggestione di un libro, di una poesia, sono necessarie letture, una curiosità scientifica.” Oggi la natura diviene concetto. Chiamo montagna lo strumento d’habitat dell’alpinista. Alcuni chiamano il mezzo della nostra introspezione andare in montagna. Non esiste la montagna, non più di quanto esista il paesaggio! Coerente all’incapacità di capire è frequentarla per metterla arbitrariamente in un altro posto, come si fa con un fiore, gesto che chiarisce molto di chi lo compie. La montagna è nulla, conta zero, è quello che ne facciamo che la giustifica. Le Alpi sono diventate, con le parole di Bernard Debarbieux, “Archetipo della rappresentazione Occidentale della montagna”.

E la montagna, la natura, gioca brutti scherzi a chi fraintende. Gli incidenti insegnano che l’unico modo di confrontarsi con l’imprevisto sia di avvertire, nel proprio viscerale retroterra, la consapevolezza che tutto possa capitare in qualsiasi momento, e di sapercisi adeguare. I russi chiamano questo stato psicofisico samoçuvstvie, non chiedetemi come pronunciarlo. Questo presuppone grande coscienza, pochi sogni ad occhi aperti, attenzione, e sì, desiderio di lasciarsi sorprendere. La sicurezza la si costruisce dentro.
Avete mai sfuggito lo sguardo di una persona fuori di testa? L’avete mai vista fare cose completamente sbagliate da cui dipende la sua o altrui sicurezza? L’avete mai udita negare questo fatto mentre accade? Ci conosciamo come persone che pur emotivamente instabili siano capaci di autocontrollo?
Ogni situazione della vita comporta un lato oscuro e ogni essere umano vorrebbe allontanarlo da sé. Confrontandoci onestamente, col tempo potrebbe diventare la nostra forza. Ma intanto, spinti dal desiderio che questo lato scompaia, si finisce per ignorare il pericolo e le conseguenze che implica, si arriva a credere che non esistano più. È una scelta che bisogna rifiutare.
Prendiamone atto, questo gioco viene vissuto diversamente da qualsiasi altro. Animali a parte nessuno deve fronteggiare oggi gli stessi problemi, non il tennista, non il gelataio o il barista quando sbagliano, ecco perché è così difficile riscontrare il necessario tipo di forma mentis in chi vi si avvicina. La coperta è sempre un po’ più corta quando fa davvero freddo, la coperta psicologica che il gruppo o il compagno più abile stende su di noi facendo apparire la montagna un luogo idilliaco.
Forse lo è.
L’amore per quei luoghi mi convince che lo sia. Certo è che laggiù bisogna sapersi differentemente adeguare. Questo non fa dei climber delle persone migliori. Ma differenti e avvertite devono esserlo senza dubbio.

Appendice semi seria per “piedi teneri”

E se non ci si sa proteggere?

Così venivano chiamati negli scout i novizi che dopo una camminata collezionavano quantità industriali di vesciche. Piedi teneri. Ne contai dodici per scarpone a metà di un’ascensione di due giorni. Non ho dimenticato questo fatto. Pensavo, o così lo credevano i miei genitori, che le calzature acquistate per i picnic potessero essere altrettanto valide a percorrere la montagna. Il caposquadriglia si caricò del mio zaino e mi aiutò a capire. L’esperienza degli altri, se opportunamente indirizzata ed espressa, potrebbe rivelarsi utile per schivare metaforiche vesciche. Botte, abrasioni o quanto meglio, evitabili più facilmente se ci sapessimo proteggere durante l’ascensione di una via di arrampicata.
Esistono svariate teorie inerenti le modalità di auto protezione progredendo in cordata, sia su vie note o in apertura di un nuovo itinerario. Ne va dell’etica dell’alpinismo. Molte di queste rispettano una coscienza del rischio o una qualche filosofia che a noi non interessa approfondire. Pragmaticamente, nella ricerca di sicurezza la prassi dovrebbe essere quella di proteggersi sempre e il più possibile. Ma vuoi per il tempo che necessiterebbe, vuoi per l’impossibilità materiale di eseguire una valida protezione ovunque si supponga necessario, la prudenza ci vincolerà ad alcuni luoghi chiave dove non è ammissibile in alcun modo derogare alla regola. Proteggersi in ambiente è un’arte fondamentale per l’alpinista.

Ed eccolo il nostro nuovo capocordata, il nostro Fringuello, disposto a tutto pur di non svolazzare via dalla parete al primo cambio di vento. S’è tolto le cuffie dell’ipod per richiamare il suono assordante del vuoto, gli è diventato sopportabile, perfino piacevole. Tempo è passato, il Nostro è cresciuto, si protegge diligentemente ogni qualvolta si trovi nella possibilità di farlo, possibilità offerta in maniera evidente dalla roccia anche quando un chiodo molto vicino lo indurrebbe a non approfittarne. Il ferro, una volta raggiunto, potrebbe non rivelarsi valido, la situazione presentarsi insuperabile, inoltre il nostro Potenziale Volatile sa chi quel chiodo ha piantato, per quale ragione e come? Racconti fantastici di gente incrodata e dimenticata in parete lo portano a ragionare in merito, la fantasia corre e trovare un bel chiodo nuovo non fa più per lui primavera. Per lo stesso motivo eviterà di appendercisi alla fine di un tratto di arrampicata che lo ha fisicamente provato. Intuisce che potrebbe andare incontro ad un’esperienza rivelatrice sullo stato di conservazione di quell’attrezzo, dimostrando a tutti noi cosa abbia compreso di crode e dintorni. I chiodi in ambiente sono quello che sono e non dare niente per scontato può essere una valida opzione. Ci si potrebbe trovare a considerare, si spera appesi alla corda, quanti metri di volo ci siamo guadagnati col nostro atteggiamento di sublime sufficienza.

Ma il nostro Fringuello non è sventato. Se proprio dovesse riposare su quel chiodo terrebbe conto che scaricherebbe su di lui l’effetto combinato del suo peso più la forza esercitata dal compagno per trattenerlo. Sul chiodo graverebbe quindi due volte il suo peso. Ci si attaccherebbe direttamente con un sano cordino. Progredendo, per proteggersi adotta ogni mezzo disponibile, quale Friend, chiodi o cordini vari, preferibilmente in Kevlar e Dyneema, a resistenza doppia rispetto ai Nylon di pari diametro, approfittando di eventuali clessidre o spuntoni, appesantendo non di poco il suo imbrago. Portarsi tutto quel costoso fardello solo per far bella figura non è da lui. La sua dotazione include la capacità di porre al meglio quegli attrezzi. Immagina perfettamente la differenza tra un rinvio psicologico, utile a tranquillizzarlo, e un piccolo cuneo non simbolico posizionato ad hoc che regga quintali a strappo. Il nostro è cresciuto. Far cose solo per farle ha smesso d’essere concepibile per lui, soprattutto in ambiente.
Lo immaginiamo a metà di un tiro di corda. Guardando verso l’alto, forte di una vista eccezionale, intravvede fiduciosamente i chiodi esistenti. Sa che quando non sono stati infissi fuori via per le più svariate ragioni sono indicatori del possibile itinerario. Moschettonarli e andare oltre non gli costa poi molto, senza dimenticare che la cattiva gestione della corda e dei conseguenti attriti di scorrimento potrebbe immobilizzarlo prima di raggiungere una sosta, per non dire di quel che accadrebbe se volasse.

Già, perché cadere in condizioni di corda bloccata significa cercarsela! Occasione tutt’altro che inusuale su vie sconosciute. La ricerca dell’itinerario a ridosso di una struttura rocciosa invita ad un orientamento serpeggiante della corda che ci tallona tra i rinvii. Una corda intera, impedita dallo sfregamento fino al bloccaggio, scarica sull’ultimo chiodo una tonnellata e mezza, avete letto bene, 1500 chili a strappo, poco più di un’utilitaria. Se adeguatamente frenata da un sistema dinamico, nel caso il Mezzo barcaiolo, rientra in un parametro di 820 chili, quanto una Cinquecento, confermandosi sistema ostico per il neofita. Conoscete chiodi in grado di resistere tanto solidali alla roccia? Spit, certamente, ma sembra non abbondino in ambiente. Il sistema del Mezzo barcaiolo sfoggia un eccesso frenante assai vicino a quello dello stesso Gri-Gri, 8/900 chili per quest’ultimo, lo sapevate? Il freno detto Secchiello, consentendo di sfalsare due mezze-corde nei moschettoni, offre possibilità di non subire un volo in condizioni di corda bloccata, presupposto da roulette russa per la corda e per l’ultimo rinvio. Con buon uso del Secchiello la botta scende a 500 chili. A quest’ultimo sistema si attribuisce il difetto di lasciar scorrere la corda più di quanto avvenga col Mezzo barcaiolo prima del freno definitivo. Anche per pochi metri si rischia di sbattere. Tuttavia se l’ultimo rinvio cedesse si sbottonerebbe anche il conseguente, e poi? C’è chi pensa si tratti di una condizione accettabile?
Detto tra noi, il nostro Aquilotto intuisce da un pezzo che vale la pena portarsi due mezze-corde anziché una singola intera. Rimanere in braghe di tela se quell’unica corda andasse incontro a un problema non è cosa che ambisca sperimentare. Certo, potrà sempre andare fuori via o saltare inavvertitamente una sosta. La capacità di attrezzare autonomamente un punto sosta rientra tra le sue qualità. Non da’ per scontato di trovarne belle e confezionate, magari pure cementate, materia da telenovelas nella realtà dolomitica. Vale la regola di rinforzare sempre la sosta presente in parete, e in progressione adeguare le protezioni al loro ambito. A che serve ancorare un cordino con un nodo granitico, arduo da eseguire in precario equilibrio, ancorandolo dicevo ad una colonnina di roccia disposta a sbriciolarsi a centosettanta chili? Un Kevlerino annodato alla buona è ciò che vorrei vedere, se s’intenda pararsi il fondoschiena per pochi metri.
Attrezzare una via è una parte del piacere di percorrerla e inventare autonomamente un percorso, per scelta o costrizione, resta pur sempre il nocciolo dell’arte di arrampicarsi. Il nostro Passerotto è ben orgoglioso di quel che farà trovare al suo secondo di cordata, da invenzioni ponderate alle strategie di passaggio, mentre il compagno più esperto potrà rimanere stupito trovandosi davanti a certe sue creative ragnatele. Entrambi sanno che vivere la montagna significa essenzialmente orientarsi nell’ignoto. Godiamocela quindi, e solida roccia a tutti!

 

Proposte per mantenere in buona salute un Secondo di Cordata

Introduciamo un personaggio non marginale, il secondo di cordata. Figura assai discussa, alcuni ne farebbero volentieri a meno. Poi se lo tirano dietro comunque. Non so voi, non riescono a farne a meno, probabilmente s’impegnano a toglierli dalla strada. Ora… so di dire qualcosa di appena ammissibile. Ma cerchiamo di dargliene atto, anche un secondo di cordata ha un’anima, bisogna rispettarlo. È da quando lo conosciamo che si aggira con la coda tra le gambe nascondendosi tra anfratti e camini, mentre noi, a parer suo, ce la godiamo a tirare strapiombi e placche proibitive al solo scopo di fargli vedere i sorci verdi. D’accordo, il capocordata estende il suo dominio fino all’atterraggio, non vi ci affidate se non siete di questo avviso. Altre strade umanamente percorribili sono a vostra disposizione per passare la domenica. Ma in parete dovrete tenervela.
Come sappiamo in ogni capocordata s’annida una subdola vena di sadismo. Sembra inevitabile, quanto il fatto che non vi riesca di dargli corda in modo decente, o gli chiediate di fermarsi in posizioni assurde perché della corda avete fatto un ikebana, equiparandolo ad un acrobata allo sbaraglio.
Ragionevolmente pensate sia bene innervosirlo? Vedervela al bar saranno pur faccende vostre, dipende da quanto vi temprate nel training, ma prestatemi fede, Pulcini carissimi, il capocordata di cose ne ha viste! Notoriamente si allena da quando voi vagheggiavate di mare e morosa come clou di ogni ultimo azzardo. Con le dovute maniere potrete sempre avanzare opinioni, udite udite, ma in parete, ebbene lì la democrazia scordarsela, è il caso di darlo per scontato.
Esempi storici affollano la fantasia. A Tita Piaz saltava la mosca al naso, per esempio. Mai discutere col Diavolo delle Dolomiti in parete. Ancor oggi si narra del sacerdote invitato a farsi portare in basso dal Dio di cui vantava protezioni, costretto a mercanteggiare la sua anima col ritorno dalle Vaiolet. Non sono strade percorribili? Non lo so. Altri tempi, diremmo noi. Nei rapporti di croda le situazioni non sono semplici come ci augureremmo che fossero. Meglio mettere le cose in chiaro prima, che non subentrino impedimenti verso l’auspicato riavvicinamento famigliare.

Giunti poi nei pressi del ghiaione ogni amenità farà sorridere i nostri partner. È il momento buono. Con irriverenti note approfittatene per far loro osservare eventuali sconvenienze, il peso degli inutili ammassi di cordini che si tirano dietro, per esempio. Abbiamo già scoperto quanto sia vano farglieli lasciare a casa. Se li sono sposati. Con sottile opera di convincimento potremmo riuscire a ridurglieli all’osso. Ma che fare dove grosso equivale a meglio e Kevlar una parolaccia in uso tra capocordata?
Non è cosa, l’esempio valga per uno zaino pieno di guai, borracce ferrate da ultima guerra, rinvii da artificialista, diari, ho visto anche questo, mazzette da muratore, mega contenitori di afrodisiaci da ingurgitare instancabilmente, quasi cibarsi costituisca lo scopo ultimo dell’ascensione.
Ma provateci lo stesso. Vi capisco. Lo so che non potete farne a meno. Piuttosto indirizzerei i miei sforzi verso altre note. Vi è una loro peculiarità che potrà dare adito a snervanti cascamenti di braccia. Guai infatti a cercare di cambiar loro sistema di sicurezza. Restii ad ogni mutamento, modifica o trasformazione, forti del loro innato casinismo, vi assicureranno imperterriti col Mezzo barcaiolo in ogni dove, palestra indoor inclusa, con la scusa di dover prender mano al magnetico impianto. Mani che per altro s’incolleranno per sempre allo strumento come ad un talismano. Salvo eventualmente passare di sponda con lo stesso risultato per Secchiello e GriGri. I nostri secondi escono dalle scuole del Cai convinti che l’ABC che avete fatto ingoiare loro faticosamente sia esaustivo di ogni situazione, e vi guarderanno come un povero scemo se pretenderete di piegarli alla varietà della ragione alpina.
Inutile spiegare le differenze di sistema, cercare di fargli acquisire un minimo di indispensabile duttilità, ad argomentare, a fargli notare cosa loro stessi penserebbero di un pittore che non volesse far uso del rosa perché non gli fosse simpatico. Un pittore usa i colori, punto, come l’alpinista dovrebbe usare tutto il materiale di cui dispone, incluse le novità.

Fatica sprecata.
Lo so, vorremmo prenderli a male parole, spesso e volentieri, “brutto Kevlar” a muso duro. Specie quando su precario terrazzino, sotto implacabile sole o leggera pioggerella siamo in loro dolce spasmodica attesa, in tensione per il tiro che ci aspetta, e loro, lui, arriva in sosta stralunato passeggiando allegramente sulla corda, e, poco ma sicuro, invece di autoassicurarsi come seccamente gli indichiamo, accenna propositi, dubbi, ragiona su private motivazioni incasinando corde e cordini eccetera, qualche battutina, e bla e bla e “La bellezza superba del tiro precedente”, una cazzata, “tutto su scagliette rovescie”, e “ma come hai fatto a passare?” chiede mentre lo guardiamo negli occhioni.
Rispondergli? Vorreste sfacciatamente dirgli che bastava tirarsi sui chiodi? Saremmo tentati. Se non fosse che sappiamo benissimo che la classe non è acqua e abbiamo altro per la testa. Pertanto ruvidamente gli chiediamo indietro gli ammennicoli indispensabili che inopportunamente insiste nel nascondere, spesso riuscendoci benissimo, cosa che scopriremo cercandoceli addosso invano al momento opportuno e, lasciandogli cadere sul casco un flautato “All’occhio ora!”, partiamo abbandonandolo sul posto col labbro inumidito di Enervit e belle cose.
Cose di sempre nei rapporti tra noi.
Sempre disponibili ad affidarci alle sue spesso inadeguate manine per i nostri men che pindarici voli, innalzandoci con indifferente leggerezza tra difficoltà inattese di un errore di itinerario che lo faranno ulteriormente penare, giù ghignamo al solo pensiero, pur coperti di sudore, innescando in lui, lo immaginiamo, il desiderio di mandarci a quel paese, ma che sopporterà sbiancando, tanto più che giudizi e recriminazioni verranno rimandati al ritorno quando farete leggere loro ridendo queste dolenti note. Ehi, e non dimenticate che in parete tutto quello che fate insieme è un miracolo, piccolo, ma riuscito. Enunciato, regola d’oro di Roger Baxter-Jones. “Tornate vivi, tornate rimanendo amici, salite in cima, in questo preciso ordine”, e così sia.


Un grazie a Mark Twight per alcune considerazioni tratte da Confessioni di un serial climber, e a quanti mi hanno insegnato tre quarti di quel che avete leggiucchiato con comprensibile sufficienza.

 

Enrico Stramezzi

membro della Scuola Ettore Castiglioni
e del Gruppo roccia Su Dret del Cai di Treviso

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