Matteo Corona

Matteo Corona, figlio di Mauro Corona, diplomato all’Accademia di Belle Arti di Venezia, si definisce un giovane con un’esistenza “tranquilla e normale”, a fronte della vita “esagerata” del celebre padre. Il recente esordio con il libro “Nelle mani dell’Uomo Corvo” (Biblioteca dell’Immagine, 2011), un thriller psicologico “illustrato”, ha riscosso un buon interesse di pubblico.

Pubblichiamo la recensione di Carlo Vanin, scrittore padovano

Un mio vecchio professore, citando Bachtin, mi diceva che i libri dialogano fra loro. Quando prendo un testo in mano che sia un romanzo, un saggio, una raccolta di poesie, in realtà mi accingo a leggere un’intera biblioteca di opere a cui quel testo si riferisce. Per questo, quando vesto il pigiama del critico (che ritengo sia l’abbigliamento adatto per scrivere recensioni) e mi accingo a introdurmi nei meandri di un’opera, penso prima di tutto: questo cosa mi ricorda? Da cosa è ispirato? Quali sono le sue auctoritas? A che tradizione appartiene?
Possono sembrare domande oziose, da professore barbogio con le toppe ai gomiti della giacca ma credete: certe volte farsi queste domande apre delle porte segrete sull’opera da recensire. E se è vero che certe porte non dovrebbero mai essere aperte, è vero anche che fare il critico è il lavoro più pericoloso del mondo. Potete ben capire, quindi, il motivo del mio abbigliamento e del fatto che in sottofondo sentiate il tema di Indiana Jones.
Bando alle facezie. Leggendo “Nelle mani dell’uomo corvo”, opera prima di Matteo Corona son dovuto andare molto, mooolto indietro, fino ad Aristotele e alle sue tre unità di spazio, tempo e azione che formalizzavano il genere all’epoca ritenuto più alto: quello della tragedia.
Ora, ho già citato due parole spia che hanno molto a che fare con il romanzo di Corona: la prima è “porta”, la seconda è “tragedia”. Arrivati a questo punto son sicuro che vi sarete rotti e vorreste che arrivassi al punto, alla storia. Ebbene, mi trovo nella difficile situazione di potervi dare solo una suggestione di quello che in 129 pagine crea Corona. E qui entra in gioco la prima unità aristotelica quella dell’azione. Secondo il filosofo greco il dramma puro e perfetto doveva comprendere un’unica azione, nessuna trama secondaria quindi, nessuna diramazione o straniamento dal plot principale. L’azione di Corona è questa, ben riassunta dalla quarta di copertina: “Vanessa aprì gli occhi e si ritrovò a dover affrontare il peggiore degli incubi: una vita da reclusa. Una vita nelle mani dell’uomo corvo”. Se vi dicessi di più di questo sulla trama, direi troppo.
Questa sinossi minima è sufficiente a Corona per sviluppare il romanzo di una prigionia, la tragedia di una ragazza caduta in una trappola a forma di casa (ed ecco la seconda unità: quella di spazio), vittima di un carnefice geniale quanto oscuro che, in minima parte, mi ha ricordato l’enigmista di Saw. In minima parte dico, perché, a parte la capacità ingegneristica di creare macchine di dolore, l’uomo corvo è del tutto privo dello spirito morale ed “educativo” del vecio Saw. Non è un pietoso torturatore “per il bene dell’umanità” ma un mostro egoista e pazzo che di umano ha ben poco. La visione del mondo dell’uomo corvo, suggerita da Corona in pochi e ben piazzati deliri oratori, non è che una malevola, pessimista e disperata similitudine con l’inferno. E, crediamo leggendo, se l’uomo corvo non può essere il demonio del mondo in cui vive, allora lo diventa di un mondo tutto suo, creato ex novo: la casa-trappola in cui è sepolta Vanessa.

Basterebbero solo questi elementi a fare di “Nelle mani dell’uomo corvo” una lettura obbligata per i fan di Sugarpulp ma c’è di più. Io ho sempre pensato che lo stile di un bravo scrittore possa rendere grande qualsiasi tipo di racconto. Da un’epopea di fate e folletti fino alla breve avventura di mia mamma che va a fare la spesa. Lo stile di Corona è unico e difficilmente comprensibile a chi non abbia aperto il suo libro. Il mio lavoro si fa veramente difficile ora perché per descrivervi lo stile in cui è scritto “nelle mani dell’uomo corvo” dovrei usare non parole della critica letteraria ma di quella pittorica. Non mi stupisce che nella biografia dell’autore legga “Si diploma nel 2008 in pittura e illustrazione, specializzandosi nell’utilizzo di tecniche tradizionali e digitali” perché, il nostro caro autore non scrive ma dipinge. E non solo dipinge: scannerizza, digitalizza e ci aggiunge qualche livello di regolazione di Photoshop, mantenendo solo tre colori: il nero, il bianco e il rosso.
Il nero, l’oscurità, il male, la necrosi della coscienza dell’uomo corvo.
Il bianco claustrofobico, asettico e asfittico della prigione.
Il rosso del sangue, sempre copioso.
Con questi tre colori, Corona dipinge a pennellate rapidissime, tache e punti il suo quadro impressionista. Ma non è certo l’impressione del levarsi del sole quella che ci vuole mostrare, anzi, proprio il contrario. Nella tela dell’uomo corvo c’è il ritratto infranto ma preciso, divisionista ma iperreale di una tragedia che si chiama vita, la vita di Vanessa che diventa quella di ognuno di noi, intrappolati in una dimensione incomprensibile da qualche dio malato e pazzo, spesso dimentichi che la via d’uscita, la porta della prigione è vicinissima a noi e, allo stesso tempo, invalicabile con le nostre sole forze. E qui mi taccio perché, oltre a essermi depresso, vi potrei rivelare qualcosa del finale con un’unica postilla: cacchio, finalmente un BEL finale. Sapete quanti finali di libri leggo che sono smorti, non adeguati al romanzo o semplicemente non/finali. Come un quadro ha una cornice, invece, nel romanzo di Corona il finale c’è eccome ed è uno dei migliori che abbia letto nell’ultimo periodo.
Da ultimo, un plauso alla grafica della copertina: anche qui, la specializzazione dell’autore credo sia venuta in aiuto e, di nuovo, anche qui un mio monito a chi si accingesse a pubblicare un romanzo: fate attenzione alle copertine, dai! Ho visto robe prese pari pari da google immagini sfumate un pochettino! Dai che me ne accorgo!
Per concludere, sono stato veramente felice di leggere qualcosa come “Nelle mani dell’uomo corvo”. Il labirinto, archetipo millenario della condizione umana, raccontato con parole nuove, con segni adatti alla nostra epoca grazie a una sorta di lirismo beat in cui le parole sono colori e suoni, velocissimi e assoluti.
Andate a comprarlo ora. Io, nel frattempo, visto che sono in pigiama, vado a schiacciarmi un pisolino sperando di sognare i sogni di un uomo giusto e qualche donna nuda.